
Tra Oriente e Occidente
Intervista sull'intercultura e il pensiero orientale
Perché l'Oriente? Intervista all'autore, a cura di Davide De Pretto, tratta dal testo Tra oriente ed Occidente (Mimesis)
Prima ancora di chiederle le motivazioni che l'hanno spinta ad interessarsi del pensiero orientale, vorrei capire a che cosa ci si debba riferire quando si usa il termine 'Oriente'.
La domanda è tutt'altro che banale, perché spesso l'uso corrente di questo termine dà come scontato considerare 'Oriente' tutto ciò che è a est dell'Europa. Solo che non è affatto scontata una definizione esatta dei confini orientali dell'Europa: si pensi soltanto alle secolari discussioni sulla questione dell'identità della Russia, se sia da considerarsi 'asiatica', 'europea' o 'eurasiatica'; oppure alle ancor più antiche diatribe sull'esatta definizione geografica e culturale di Bisanzio. Stabilire in modo certo i confini tra Europa e Asia è stato sempre un problema: basti ricordare che molte colonie greche erano dislocate in quella che era definita genericamente 'Asia minore'. Forse è più agevole utilizzare una demarcazione di carattere culturale, considerando che l’‘arcipelago Europa’ – per rifarsi ad una felice immagine di Massimo Cacciari - si è formato sulla base di due colossali 'zolle tettoniche': la cultura greca e quella che accomuna i tre grandi monoteismi (giudaico, cristiano e islamico). Di conseguenza apparterrebbero all'Oriente quelle tradizioni di pensiero che non si rifanno direttamente a questi due enormi ambiti culturali: in primo luogo le tradizioni indiane e cinesi. Ma deve essere chiaro che queste due tradizioni non sono in realtà univoche e compatte: ciascuna si è articolata al proprio interno in un considerevole numero di scuole di pensiero talvolta molto diverse tra loro. Per cui, in definitiva, sarebbe meglio parlare di 'Orienti' al plurale, piuttosto che di un unico 'Oriente', in modo da abituarsi a considerare la pluralità e la varietà di culture e di filosofie che la parola 'Oriente' pretende di comprendere.
Bene. Fatte queste precisazioni preliminari, passiamo al nocciolo della questione: quali motivi l'hanno spinta ad interessarsi del pensiero orientale?
La motivazione più recente ed oggettiva è quella che mi ha convinto della necessità di mostrare una verità apparentemente banale, ossia che anche l'Oriente ha pensato. Contrariamente a quanto è avvenuto con i filosofi dell'Illuminismo e del Romanticismo, in epoca contemporanea la filosofia occidentale, in particolare europea, ha dato per scontato che il pensiero sia una faccenda tutta 'nostra': complessa, intricata, talvolta addirittura contraddittoria, ma sostanzialmente solo e tutta nostra. Cominciare a sfatare questa che è, nella migliore delle ipotesi, un'illusione e, nella peggiore, un puro e semplice pregiudizio, mi sembrava doveroso, oltre che 'scientificamente' obbligatorio. Vi è però una motivazione antecedente, in gran parte soggettiva: da sempre, o meglio da quando il mio primo 'maestro' di filosofia, Giuseppe Faggin, mi fece leggere il Tao Te Ching, c'è stata un'immediata consonanza con i miei modi di intendere la vita, il mondo, il rapporto con gli altri e con me stesso. Ovviamente, a quel tempo questa consonanza era nell'ordine della suggestione, dell'emozione e dell'intuizione. Vi era ben poco di erudito e, tanto meno, di meditato. In questo rivolgersi ad Oriente emerge immediatamente il problema di come e, ancora prima, del se si possa parlare di 'filosofia orientale'. Si potrebbe obiettare infatti che 'filosofia' sia un termine proprio della lingua greca e quindi non possa esser fatto valere per altre tradizioni di pensiero. Se prendessimo sul serio questa obiezione, sarebbe in primo luogo da osservare che essa dovrebbe esser fatta valere per tutte le tradizioni di pensiero non greche: né la lingua latina, né quella tedesca, né quella francese, né quella inglese, ecc., possiedono questo termine, ma non per questo possiamo concludere che non esistono testimonianze filosofiche scritte in latino, tedesco, francese, inglese, ecc.! Non solo: é chiaro che l’obiezione, anche ammettendo che abbia un valore, sarebbe puramente formale. L'importante è infatti stabilire quale significato attribuiamo alla parola 'filosofia', ossia quale concetto ad essa facciamo corrispondere. Allora, ricordando il suo contenuto originario (“amore per la saggezza”), potremmo agevolmente ritrovarlo all'interno di molti pensieri orientali che finora non sono stati considerati dalle nostre storie della filosofia sufficientemente degni del nome 'filosofia'. In generale, poi, è da ricordare che la questione della esclusività occidentale della filosofia è intrigante e 'spinosa' da non molto tempo. Non lo fu ai tempi dei Greci, come ha mostrato, tra gli altri, Martin West. Non lo fu nemmeno durante il tardo Medio Evo: basti pensare a Niccolò Cusano. Tanto meno lo fu durante il Rinascimento: basti ricordare Pico della Mirandola. Non lo è stata nemmeno durante i periodi che videro fiorire l’Illuminismo e il Romanticismo: anche se quasi tutti i pensatori interni a questi movimenti erano convinti che la Ragione o lo Spirito avessero dato il meglio di sé nelle terre comprese tra Atene, Parigi e Berlino, tuttavia erano comunque d’accordo, in base alla comune convinzione dell’universalità della Ragione o dello Spirito, nel riconoscere che uomini dalle più diverse provenienze sono stati in grado di produrre filosofia. È solo con l’800, con la nascita delle ideologie nazionalistiche ed imperialistiche, che si è sviluppato e consolidato un vero e proprio pregiudizio eurocentrico, affezionato all’idea secondo la quale solo i popoli occidentali – e, in particolare quello greco e quello tedesco – sono stati capaci di vera e propria filosofia. Uno degli ultimi e più noti esempi di tale radicata convinzione è rappresentato da Heidegger, per il quale né in Cina né India si può dire vi sia stata davvero filosofia. Ora, al di qua delle più o meno 'grandi' motivazioni ideologiche e politiche che possono sorreggere simili opinioni, si tratta nella maggior parte dei casi di vere e proprie posizioni pre-giudiziali, ossia di 'piccoli' giudizi espressi prima e a prescindere da qualsiasi conoscenza specifica delle forme di pensiero sorte in Oriente; anzi, emessi spesso ancora prima di avere letto una semplice storia del pensiero cinese o del pensiero indiano! Tutto sommato dobbiamo constatare a questo riguardo che oggi, nell'ambito delle cosiddette 'discipline filosofiche', siamo fermi a posizioni più arretrate e più chiuse rispetto a quella tenuta dallo stesso Hegel il quale non fu certo tenero nel giudicare le forme di pensiero extraeuropee, ma, nonostante questo, si prese la briga di studiarle e comprenderle, pur nei limiti concessi dalle documentazioni disponibili al suo tempo.
A cosa imputa questa miopia contemporanea della filosofia occidentale nei confronti di altre tradizioni di pensiero?
Come ho già detto, credo che una delle cause principali di tale miopia sia da ricercarsi nella grande forza di espansione e di penetrazione sviluppata, nei secoli XIX e XX, dalle ideologie nazionalistiche ed imperialistiche. Ma, specialmente nel '900, a questa forza si è aggiunta la potenza attrattiva delle scienze e delle tecniche: la civiltà occidentale si è presentata al mondo come quella che ha più contribuito, in ogni campo, allo sviluppo della scienza e al progresso della tecnologia. Non solo: si è cercato di spiegare l'origine di questi sviluppi e progressi andandola a trovare in ampie porzioni della tradizione filosofica occidentale, da Aristotele a Galilei, da Galilei a Newton. Tuttavia questo tipo di spiegazione – anche ammettendo che abbia avuto una sua legittimità fino ad un secolo fa – oggi non risulta più del tutto soddisfacente.
Per quale ragione?
Principalmente per due motivi: innanzitutto, perché importanti settori scientifici, in particolare della fisica e della biologia, sono andati ben oltre le prospettive meccanicistiche e, in tal senso, hanno spezzato la continuità e la compattezza di un modello in base al quale la realtà veniva spiegata come un insieme di oggetti semplici e separati. Questa svolta ha permesso di scoprire indirettamente che molti tipi di pensiero orientale avevano da tempo intuito la possibilità di comprendere il mondo e la vita in base a modelli diversi, basati sulle idee di 'organismo' e di relazione intrinseca. In secondo luogo, perché vaste zone del mondo rimaste o lasciate ai margini degli sviluppi scientifici e tecnologici hanno conseguito e continuano a conseguire risultati sempre più qualificati e frequenti nell'ambito di tali sviluppi. Penso ovviamente, innanzitutto, alla Cina e all'India, ma anche al Giappone e alla Corea. Certo, si può spiegare tale fenomeno dicendo che simili progressi si sono avuti proprio grazie alla conoscenza e all'incorporamento, da parte delle culture extraeuropee, di concetti e di metodi prodotti da alcune grandi tradizioni della filosofia occidentale che stanno alla base e all'origine delle rivoluzioni scientifiche e delle innovazioni tecnologiche. Resta il fatto che oggi non possiamo più liquidare la questione semplicemente accontentandoci di ripetere la vecchia favoletta di un Occidente razionale e scientifico versus un Oriente sentimentale e 'mistico'.
Quindi Lei ritiene che oggi sia necessaria una conoscenza del pensiero orientale per motivi che vanno aldilà delle sue personali consonanze con tale pensiero.
Certo. In un mondo che va sempre più velocemente verso una comunicazione planetaria, troverei del tutto assurdo metterci a ricercare le radici di pensieri autoctoni per rivendicare qualche originalità in grado di fondare una qualche forma di supremazia su altre tradizioni di pensiero. Questo credo valga per l'Occidente, ma anche per l'Oriente. Oggi non è più possibile né legittimo – se mai lo è stato – sostenere la superiorità di un pensiero occidentale, ma risulterebbe altrettanto insostenibile una supremazia del pensiero orientale: per esempio, se oggi, ancor più di una volta, è ridicolo sostenere che la ragione sia monopolio dei 'figli' di Aristotele, sarebbe altrettanto ridicolo sostenere che la saggezza sia prerogativa dei 'figli' di Confucio.
È per questo che da un po' di tempo lei sostiene la necessità di una filosofia interculturale?
Sì. Anche se per 'filosofia interculturale' non intendo, però, una nuova disciplina accademica che abbia come obiettivi quelli di individuare, classificare ed archiviare analogie e differenze tra pensieri d'Oriente e d'Occidente; né, tanto meno, la penso nei termini di una sintesi che metta insieme pezzi eccellenti di filosofie appartenenti alle diverse tradizioni di pensiero, come avviene con le varie proposte di una “world philosophy”. Con 'filosofia interculturale' intendo una pratica filosofica che riprenda ad interrogarsi sui grandi problemi non dando più come scontate ed esclusive le risposte fornite dalle nostre tradizioni di pensiero. Questo non per accettare come vere soltanto quelle altrui, ma per farle interagire con le nostre e, con ciò, magari produrne qualcuna di nuova.
Rimane però il fatto che, al di là di questa 'necessità' generale, lei coltiva una propensione istintiva e personale per alcune forme di pensiero orientali ed in particolare per quelle cinesi.
E' vero. Ancora più in particolare, per il pensiero taoista e per quello del Buddhismo chan, scaturito dal 'felicissimo' incontro, avvenuto in Cina durante la dinastia Tang, tra Buddhismo indiano e Taoismo.
Potrebbe indicare per sommi capi gli aspetti di queste tradizioni di pensiero che hanno fatto scattare ed alimentato questa propensione?
In primo luogo l'assenza di una separazione tra trascendenza ed immanenza, separazione che mi ha sempre procurato parecchi problemi. In secondo luogo la capacità di integrare la riflessione con l'azione o, in altri termini, la teoria con la pratica. In tal senso la disciplina della meditazione è esemplare: non si tratta né di un semplice esercizio fisico, ma nemmeno di un esercizio solo spirituale. Questa forza 'integrativa' è forse il denominatore comune di molti altri aspetti che mi hanno attratto. Tale forza, infatti, non è solo quella che agisce per integrare corpo e mente nella meditazione, ma è anche quella che riesce a cogliere insieme spazio e tempo; quella che, all'interno del tempo, riesce a sciogliere la classificazione passato-presente-futuro; e quella che, all'interno dello spazio, riesce a pensare le cose come processi, non come oggetti, e ad intendere le loro relazioni non come rapporti estrinseci ed accidentali, ma come relazioni intrinseche ed essenziali. Quest'ultimo aspetto ha importanti ripercussioni anche in ambito etico, perché fonda possibilità di intendere gli individui non più come monadi separate ma come centri di relazioni. Ma forse l'aspetto che, da sempre, più mi ha colpito di questa visione del mondo basata sulla potenza integrativa dei contrari è che essa ha determinato in modo 'sensibile', concreto, fattuale, quasi tutte la arti: dall'arte della scrittura all'arte medica, dalla pittura ad inchiostro al tai chi chuan, ecc..(....)
Per concludere, cosa consiglierebbe in concreto ad uno studente che volesse interessarsi seriamente del pensiero orientale e della filosofia interculturale?
Di prendere una doppia laurea: una in Filosofia, ed una in una lingua orientale (cinese, sanscrito, tibetano o giapponese). Dopo di che, se avesse ancora voglia, tempo e fondi per studiare, sarebbe bene frequentasse un Master in studi interculturali. Nel frattempo dovrebbe, ovviamente, viaggiare molto, soprattutto nei paesi di cui ha studiato la lingua, la storia e il pensiero. A partire, necessariamente, dalla Grecia: non dobbiamo mai dimenticare, infatti, che noi partiamo da una condizione culturale specifica, dove il pensiero greco è stato e continua ad essere determinante. 'Determinante' non solo come peso, ma anche come strumento di dialogo con altre tradizioni di pensiero.
Autore: Pasqualotto Giangiorgio
Editore: Mimesis
A cura di: De Pretto
Anno: 2010
Pagine: 187
ISBN: 9788857502762
Presentazione Libro:
In un tempo che è sempre più ossessionato dalla costruzione di identità in cui rispecchiare le proprie miserie e nobiltà, è necessario ricominciare da principio. La forma dell'intervista o del dialogo con gli studenti, semplice e lontana da tecnicismi, costituisce la migliore introduzione ad un diverso modo di pensare che, concentrandosi sugli elementi fondamentali, fa emergere la portata concettuale delle esperienze filosofiche orientali, evitando le secche dell'esotismo e del monoculturalismo.
Scheda Autore: Giangiorgio Pasqualotto
Docente di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, dove dal 2006 è titolare della cattedra di Estetica. Nel 1993 è stato co-fondatore dell’Associazione “Maitreya” di Venezia per lo studio della cultura buddhista. Collabora attivamente ad alcune importanti riviste di filosofia tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, come Angelus Novus, Contropiano, Il Centauro.
Nel 1996 ha contribuito alla nascita della rivista di filosofia orientale e comparata “Simplègadi”. Nel 1999, con Adone Brandalise, è stato tra i promotori del Master in Studi Interculturali dell’Università di Padova, presso il quale ha insegnato Filosofia delle Culture. Dalla fine degli anni Ottanta è stato il primo pensatore italiano a elaborare la valenza teoretica di una filosofia come comparazione, distinguendola da un mero esercizio comparativo di pensieri appartenenti ad ambiti geo-filosofici differenti.Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila ha contribuito all’introduzione in Italia della filosofia giapponese contemporanea e in particolare allo studio del pensiero di Nishida Kitaro. Parallelamente ad altri autori, si è misurato dai primi anni Duemila con il tentativo di delineare temi e metodi per una filosofia interculturale, che costituisce attualmente il campo di maggior impegno e interesse della sua ricerca, congiuntamente a una riflessione estetica sulle forme dell’arte dell’Asia orientale.
Tra le sue pubblicazioni: Filosofia e globalizzazione,( Mimesis, 2011)Tra Occidente ed Oriente: interviste sull'intercultura ed il pensiero orientale(Mimesis 2010)Per una filosofia interculturale Mimesis 2008)Dieci lezioni sul buddhismo,(Marsilio 2008)